L’Institute for the Future (for the University of Phoenix Research Institute) ha pubblicato la propria analisi “Future Work Skills 2020″ individuando le dieci competenze del futuro.
Tra queste troviamo il “sense making” ovvero quella che viene definita la abilità di determinare il significato profondo o il valore di ciò che viene espresso, abilità che è considerata propria degli esseri umani e che non può invece essere appresa dalle macchine, ragion per cui caratterizza un ambito in cui – anche nel futuro più automatizzato – l’uomo non sarà per ciò sostituibile.
Il sense making di per sé è però molto più di questo, o meglio, porta con sé mille premesse e mille conseguenze.
Basti pensare che la circostanza che siamo noi a dare un senso all’esperienza e che lo facciamo sulla base dell’esperienza stessa, significa che la realtà in sé non ha un senso proprio, ma ha solo il senso che noi diamo ad essa e quel senso lo diamo forti del nostro vissuto e dell’applicazione di un pensiero critico. Il che, volendo, allarga la analisi al principio secondo il quale va anche considerata la variabile data dal fatto che l’osservatore influisce sul prodursi della realtà (per chi è pratico di fisica quantistica).
A parte queste divagazioni poco pratiche, ciò che più mi affascina di questa skill è tuttavia l’idea che può essere utilizzata completamente a nostro vantaggio, purché impariamo a dare alle cose non un senso qualsiasi, ma un senso FUNZIONALE, ossia un significato UTILE per noi. Dare quel significato che può consentirci di vedere il nostro obiettivo, di focalizzarci su di esso, di seguire il nostro percorso con gioia ed intenzione, di ingaggiarci, parola magica che descrive l’atto di iniziare qualcosa a cui teniamo, con impeto, impegno e responsabilità, credendo in ciò che facciamo.
Ci sono cose belle e brutte? Giuste e ingiuste? Sì, può essere …… Ma quello che veramente dobbiamo chiederci è diverso: “è utile per me dare questo significato a ciò che mi sta accadendo?” “quale altro significato potrei dare perché rappresenti un contributo e non un ostacolo al mio cammino?”.
Spaccare pietre è bello o brutto? è giusto o sbagliato che mi sia capitato questo lavoro? Chi lo sa e soprattutto ……mi serve saperlo? mi è utile pensare che sia profondamente ingiusto che mi abbiano dato quel compito se ciò che voglio o di cui ho bisogno è affrontare la giornata lavorativa serenamente?
“Un giorno un viaggiatore incontrò uno spaccapietre che lavorava di controvoglia e scuro in volto: -Che cosa stai facendo? – gli chiese. -Non vedi? Sto spaccando pietre. Un lavoro che mi sta spezzando la schiena!
Procedendo oltre, il viaggiatore incontrò un altro spaccapietre, ma questi aveva il viso più disteso e lavorava di buona lena. – Che cosa stai facendo?- gli chiese. – Guadagno da vivere per me e per la mia famiglia! E’ duro, ma almeno ho il vantaggio di lavorare all’aperto! – gli rispose accennando a un sorriso.
Più avanti ecco un terzo spaccapietre, che però sembrava molto contento di quello che stava facendo, mentre sotto i suoi colpi vigorosi le schegge schizzavano come note musicali. – Che cosa fai?- gli chiese.
– Sto costruendo una cattedrale! – gli rispose quello, raggiante” (cit.).
L’azione è sempre la stessa, ciò che cambia è il significato che diamo, l’atteggiamento con cui la viviamo. E ciò non significa che dobbiamo rassegnarci ed accettare quel lavoro per tutta la vita, se non lo vogliamo: se siamo destinati ad un futuro diverso (e non parlo di destino come a un insieme di inevitabili eventi, ma al futuro che noi ci costruiamo) lo raggiungeremo più facilmente carichi di energie positive e della capacità di interpretare il presente come un frammento di un progetto più grande, piuttosto che come il mattone di un carcere.
E tu cosa sei disposto a fare per (smettere di lamentarti e) dare un senso utile alle cose?